sabato 29 novembre 2008

Agostino d'Ippona - Le Confessioni di una filosofia di vita

AUTORE: CRISTIAN EMILIANO VALENZUELA ISAAC

“L'homme qui a le plus vécu n'est pas celui qui a compté le plus d'années,
mais celui qui a le plus senti la vie.”
(Rousseau, J-J., Emile ou De l’education)
Agostino d’Ippona:
Le CONFESSIONI di una filosofia di vita
Cristian Emiliano Valenzuela Issac

Itinerario intelletuale
Agostino nacque nel 354 d.C. in Tagaste (Africa settentrionale, attuale Tunisia). Suo padre, Patrizio, era pagano e commerciante. Sua madre, Monica, era cristiana e voleva che suo figlio appartenesse a questa religione. Patrizio morì quando Agostino era adolescente, ma aveva garantito a suo figlio gli studi di retorica a Cartagine (nucleo culturale dell’epoca).
Agostino non fu da sempre un devoto cristiano. Prima amò la vita terrena, e tempo dopo amò Dio. Così descrive nelle Confessioni i suoi giorni a Cartagine:
1) “Giunsi a Cartagine, e dovunque intorno a me rombava la voragine degli amori peccaminosi. Non amavo ancora, ma amavo di amare e con più profonda miseria mi odiavo perché non ero abbastanza misero. (...) Malattia della mia anima: coperta di piaghe, si gettava all’esterno con la bramosia di sfregarsi miserabilmente a contatto delle cose sensibili”[1]
A Cartagine imparò ad amare il gioco, gli spettacoli, la gloria, i piaceri corporali. Frutto di quel periodo fu un figlio che ebbe ai diciannove anni. Nonostante la crisi interiore di Agostino, i novi anni a Cartagine lo avvicinarono a la filosofia: durante i suoi studi prese contatto con un libro di Cicerone chiamato Ortensio che è un incitamento alla filosofia:
2) “Dal momento in cui, essendo ancora diciannovenne, lessi nella scuola di retorica il libro di Cicerone chiamato Ortensio, si infiammò la mia anima di tanto ardore e desiderio di filosofia che subitamente pensai di dedicarmi ad essa.”[2]
La filosofia era diversa da quella contemplazione o ammirazione theorética dei greci, anzi la si capiva come un’ansia di felicità, una ricerca vitale su problemi vitali. Nei Soliloqui l’autore manifesta le inquietudini che guidano le sue speculazioni:
3) “-Allora, che cosa vuoi sapere? –Voglio ardentemente conoscere Dio e l'anima. –E null'altro? –Null'altro, assolutamente.”[3]
Uno dei problemi di cui questo filosofo si occupò a lungo è il problema del Male nel mondo. Alla ricerca di una risposta, adottò la religione della setta manichea (nella quale rimasse nove anni) che spiegava la realtà come una lotta tra due principi rettori: il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre. Secondo questa tesi, la malvagità umana si spiegherebbe come una vincita del Principio del Male con conseguenze individuali, cioè, l’uomo sarebbe vittima di un conflitto trascendente e, di conseguenza, non sarebbe più responsabile dalle sue azioni. Agostino, infatti, combattè questa posizione:
4) “Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio del Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a non volere; ero io, io. Da questa volontà incompleta e incompleta assenza di volontà nasceva la mia lotta con me stesso, la scissione di me stesso, scissione che, se avveniva contro la mia volontà, non dimostrava però l’esistenza di un’anima estranea, bensì il castigo della mia.”[4]
Nel 383 d.C., Agostino andò a Roma e vi si stabilì per insegnare retorica. Ebbe la possibilità di conoscere la dottrina platonica della Scuola di Atene che si caratterizzava in quell’epoca per il suo scetticismo (l’astenersi dal giudizio). Appartenne a questa scuola quattro anni e si interessò anche all’astrologia.
Nel 384 d.C., a Milano, Agostino conobbe il vescovo Ambrogio, colui che lo mise a contatto con “alcuni libri dei filosofi [neo]platonici” e gli trasmise la dottrina cristiana, specialmente il Vangelo di Giovanni. Inoltre, Agostino imparò a leggere in silenzio e a leggere allegoricamente la scrittura.
5) “Mi rallegravo di sentir ripetere da Ambrogio nei suoi sermoni davanti al popolo come una norma che raccomandava caldamente: "La lettera uccide, lo spirito invece vivifica". Così quando, scostando il velo mistico, scopriva il senso spirituale di passi che alla lettera sembravano insegnare un errore, le sue parole non mi spiacevano, benché ignorassi ancora se erano veritiere. Trattenevo il mio cuore dall’assentirvi minimamente, per timore del precipizio, e il pencolare a quel modo era una morte peggiore.”[5]
La conversione
Pochi anni dopo, Agostino si convertì al cristianesimo. La decisione la prese dopo il celebre episodio del Giardino di Milano. La crisi interiore di Agostino era arrivata al punto massimo. Credeva in Dio, ma non apparteneva ancora alla Chiesa; la sua anima, scissa, non riusciva a rivolgere il suo sguardo verso il cielo e continuava a fissarlo in basso:
6) “Il nemico deteneva il mio volere e ne aveva foggiato una catena con cui mi stringeva. (...) La volontà nuova, che aveva cominciato a sorgere in me, volontà di servirti gratuitamente e goderti, o Dio, unica felicità sicura, non era ancora capace di soverchiare la prima, indurita dall’anzianità. Così in me due volontà, una vecchia, l’altra nuova, la prima carnale, la seconda spirituale, si scontravano e il loro dissidio lacerava la mia anima.”[6]
Nel libro VII delle Confessioni, Agostino racconta le conversioni di due personalità note dell’epoca: il retore e filosofo africano Mario Vittorino, e il monaco ed eremita egiziano Antonio.
7) “Ma ora quanto più amavo queste due persone ascoltando gli slanci salutari con cui ti avevano affidato la loro intera guarigione, tanto più mi trovavo detestabile al loro confronto e mi odiavo.(...) Da giovinetto, ben misero, sì, misero proprio sulla soglia della giovinezza, ti avevo pur chiesto la castità. "Dammi, ti dissi, la castità e la continenza, ma non ora", per timore che, esaudendomi presto, presto mi avresti guarito dalla malattia della concupiscenza, che preferivo saziare, anziché estinguere. Mi ero così incamminato per le vie cattive di una superstizione sacrilega, senza esserne sicuro, è vero, ma comunque anteponendola alle altre dottrine, che invece di indagare devotamente, combattevo ostilmente.”[7]
Il filosofo si trovava a casa sua con il suo amico Alipio. L’angoscia cresceva dentro di sé, la disperazione aumentava e nel cuore di Agostino c’era un focoso litigio. Tutti e due andarono al giardino che era accanto all’abitazione. “Qual è il modo di arrivare a Dio?”–si chiedeva l’africano – e la risposta fu “Con un volere vigoroso e totale”, in altre parole, con il rivolgersi dell’amore verso di lui. Ciononostante, le passioni terrene lo continuavano a attirare verso il basso.
8) “Ero sospeso nell’esitazione, mentre la Continenza riprendeva, quasi, a parlare: ‘Chiudi le orecchie al richiamo della tua carne immonda sulla terra per mortificarla. Le voluttà che ti descrive sono difformi dalla legge del Signore Dio tuo’. Questa disputa avveniva nel mio cuore, era di me stesso contro me stesso solo. Alipio, immobile al mio fianco, attendeva in silenzio l’esito della mia insolita agitazione.
Quando dal più segreto fondo della mia anima l’alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un’ingente pioggia di lacrime.”[8]
Fu allora che sentì dalla casa vicina una voce da bambino che cantava giocosa ‘Prendi e leggi, prendi e leggi’:
9) “‘Prendi e leggi, prendi e leggi’. Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. (...)
Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: "Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze" (Romani 13, 13) . Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata, infatti, la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.”[9]
Confessioni X - Ricerca di Dio
Agostino scrisse le Confessioni tra il 397 d.C. e il 401 d.C. Quest’opera è divisa in tredici libri. Secondo una tradizione classica, si pensa che i primi nove libri siano autobiografici, cioè, dedicati agli eventi della vita del santo dalla sua nascita al momento della conversione; poi, i libri X e XI sarebbero i cosiddetti filosofici (trattano, infatti, del problema della memoria e del tempo, rispettivamente); e, infine, i libri XII e XIII sarebbero religiosi, in cui Agostino fa la sua esegesi sui primi passi della Scrittura.
Ciononostante, noi preferiamo accettare un’altra chiave di lettura che non esclude il contenuto filosofico dell’opera integra: la struttura delle Confessioni rifletterebbe i tre momenti che dovrebbe attraversare ogni anima individuale. Quindi, i primi nove libri rappresenterebbero la distentio animi, l’anima che si perde nei piaceri effimeri delle cose materiali, molteplici, eterogenee e temporali; il libro X prenderebbe il posto dell’intentio animi, il momento di riflessione, di interiorità, di rivolta verso sé stesso alla ricerca della vera felicità; e i libri XI, XII e XIII sarebbero un esempio di espansio animi, l’anima che guarda, ama e gode Dio, che cerca di capire la sua Parola.
In questo lavoro, ci soffermeremo su alcuni passi scelti del libro X che riguardano l’argomento che prova l’esistenza di Dio e il problema della memoria. Consideriamo opportuni questi tratti per un primo avvicinamento a quest’autore perché in essi vengono anche riflessi tanto i momenti della distentio, intentio ed espansio quanto l’intera struttura delle Confessioni.
L’indagine di Agostino inizia con una domanda: “Che amo quando amo Dio?”. Essa viene risposta, innanzitutto, in un modo negativo che fa riferimento agli aspetti sensibili che non corrispondono a Dio. Né la visione, né l’udito, né l’olfatto, né il gusto, né il tatto sono i mezzi per accedere a Dio, dato che questi hanno dei limiti spaziali e temporali, e la divinità si caratterizza per onnipresenza (e, quindi, assenza di confini) e per l’eternità (un istante sempre presente). Nell’uomo interiore, dentro di lui, sarà dove troverà non Dio, ma qualche suo vestigio.
10) “Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. (...) Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio.”[10]
11) “Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio.”[11]
Prima, l’ipponese lo cerca fuori, nella materia. Interroga tutti gli enti, dalla terra agli astri, per sapere se questi siano per caso il suo Dio. La risposta è unanime: sono creature sue.
È conveniente ricordare, in questo punto, che tutte le creature hanno il marchio del creatore, secondo Agostino. Il dogma cristiano indica che Dio sia uni-trino: Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone ma una sola divinità. Basta leggere i primi righi del Vangelo di Giovanni “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutte le cose furono create per mezzzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. L’interpretazione agostiniana della creazione, che si appoggia su un’opera platonica (il Timeo) di cui erano soltanto arrivati alcuni passi alle mani di Agostino, è la seguente: il Padre pensa gli archetipi, i paradigmi perfetti delle cose che esistono; il Padre guarda le idee nel suo Intelletto (Verbo-Figlio) e crea Cielo e Terra, cioè, le cose immateriali e le cose materiali. È un Amante che si lega a un Amato. Questo rapporto è l’Amore, ovvero lo Spirito Santo.
Di conseguenza, tutte le creature sono uni-trine: hanno misura, numero e peso. Per esempio, pensiamo a una pietra. La misura della pietra è ciò che la fa essere un’unità, un ente individuale. Il numero della pietra (questo termine ha una marcata tradizione pitagorica e platonica) è ciò che la fa essere una cosa determinata, cioè, ciò che la fa appartenere a una specie determinata: essa è una pietra, non è un albero, appartiene alla specie pietra per determinate caratteristiche proprie. Il peso non deve capirsi come qualcosa di fisico, bensì in un senso metafisico: ogni cosa ha un posto nell’ordine stabilito dal Creatore a seconda della sua essenza. In Confessioni XIII, IX, 10: “Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. L’olio versato dentro l’acqua s’innalza sopra l’acqua. l’acqua versata sopra l’olio s’immerge sotto l’olio, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Fuori dell’ordine regna l’inquietudine, nell’ordine la quiete”.
12) “Interrogai sul mio Dio la mole dell’universo, e mi rispose:‘Non sono io, ma è lui che mi fece’. Interrogai la terra, e mi rispose:‘Non sono io’; la medesima confessione fecero tutte le cose che si trovano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con anime vive; e mi risposero:‘Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi’. Interrogai i soffi dell’aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose:‘Erra Anassimene, io non sono Dio’. Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle:‘Neppure noi siamo il Dio che cerchi’, rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio corpo: ‘Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui’: ed essi esclamarono a gran voce: ‘È lui che ci fece’. Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza.”[12]
Cielo e Terra furono creati da Dio. Infatti, nell’universo ci sono degli esseri materiali e degli esseri immateriali. La pietra è, per esempio, un ente materiale inanimato. Gli angeli sono degli esseri immateriali animati. L’uomo è un essere intermezzo, ha un’anima immateriale e un corpo materiale. Nella parte più degna dell’anima, l’animus, l’uomo è simile a Dio. La tripartizione dell’uomo è più complessa di quella delle creature: la sua misura è la memoria, quella che lo fa essere un individuo diverso dagli altri individui; il suo numero è la ragione, quel tratto che lo fa appartenere a una specie di animali razionali; il suo pondus è la volontà, l’amore, il che ha come conseguenza che l’uomo non abbia un posto pre-determinato nell’ordine universale, bensì sia lui a determinarlo con le sue scelte, con quello che scelga di amare.
Δ Ontologia trinitaria

DIO =
Creatore Δ
Creatura Δ
Uomo Δ
Amante
Padre
Misura (Mensura)
Memoria
Amato
Figlio/Verbo/Intelletto
Numero (Numerus)
Ragione
Amore
Spirito Santo
Peso (Pondus)
Volontà

13) “Allora mi rivolsi a me stesso. Mi chiesi. ‘Tu, chi sei?’; e risposi: ‘Un uomo’. Dunque, eccomi fornito di un corpo e di un’anima, l’uno esteriore, l’altra interiore. A quale dei due chiedere del mio Dio, già cercato col corpo dalla terra fino al cielo, fino a dove potei inviare messaggeri, i raggi dei miei occhi? Più prezioso l’elemento interiore. A lui tutti i messaggeri del corpo riferivano, come a chi governi e giudichi, le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose là esistenti, concordi nel dire: ‘Non siamo noi Dio’, e: ‘È lui che ci fece’. L’uomo interiore apprese queste cose con l’ausilio dell’esteriore; io, l’interiore, le ho apprese, io, io, lo spirito, per mezzo dei sensi del mio corpo.”[13]
La ricerca continua, e Agostino insiste sul fatto che Dio non possa essere corporeo. Il corpo è materia, e la materia si divide in parti. Ora, le parti sono minori del tutto. Dio non può essere divisibile, perché non sarebbe perfetto; non può avere delle parti che siano minori a un’altra cosa, perché non sarebbe massimo. Quindi, Dio è immateriale. Allora... che Dio sia l’anima? No, l’anima ci dà il movimento, ci dà la vita, e Dio dà vita alla vita.
14) “Ora, queste cose rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare; non mutano la loro voce, ossia la loro bellezza, se uno vede soltanto, mentre l’altro vede e interroga, così da presentarsi all’uno e all’altro sotto aspetti diversi; ma, pur presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono. Mi dice la verità: ‘Il tuo Dio non è la terra, né il cielo, né alcun altro corpo’; l’afferma la loro natura, lo si vede, essendo ogni massa minore nelle sue parti che nel tutto. Tu stessa sei certo più preziosa del tuo corpo, io te lo dico, anima mia, poiché ne vivifichi la massa, prestandogli quella vita che nessun corpo può fornire a un altro corpo. Ma il tuo Dio è anche per te vita della tua vita.”[14]
In questo momento della ricerca, ci troviamo nel passaggio dall’intentio all’espansio. La via di ascesa si produce attraverso la memoria. Agostino descrive le diverse funzioni della memoria umana, fino ad arrivare alla memoria che ognuno ha del Creatore. La prima funzione che ne descrive riguarda l’evocazione di immagini sensibili.
15) “Trascenderò dunque anche questa forza della mia natura per salire gradatamente al mio Creatore. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti.”[15]
La memoria è una sorte di enorme palazzo, in cui si depositano dei contenuti sentiti. Un’altra funzione di essa è l’evocazione delle azioni compiute nel passato.
16) “Sono tutte azioni che compio interiormente nell’enorme palazzo della mia memoria. Là dispongo di cielo e terra e mare insieme a tutte le sensazioni che potei avere da essi, tranne quelle dimenticate. Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli.”[16]
Questo brano segnato da un asterisco (*) ha un’importanza particolare. Petrarca fa allusione a questo brano in una sua epistola a Gherardo da Borgo San Donnino nel 1333. In quest’epistola, lui narra la sua ascesa al Monte Ventoso. Portava in mano, come al solito, un esemplare delle Confessioni del nostro autore. Si trovava in una situazione simile all’episodio di Agostino del Giardino di Milano, per cui aprì liberamente il libro dell’ipponese e lesse il primo brano che trovò. Quel brano è questo qua, il quale lo incitò a recuperare il centro della riflessione filosofica. Insomma, questa epistola si può considerare un documento fondante dell’Umanesimo.
*) “Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano sé stessi.”*
Nella memoria ci sono dei contenuti più astratti, come i concetti. Agostino riconosce che c’è bisogno di un maestro per estrarre dall’oblio questi concetti che ci sono ingressati in modo misterioso. È vero che Agostino postula una teoria gnoseologica e pedagogica. C’è un’altra sua opera chiamata Il maestro nella quale sostiene che conosciamo grazie ai maestri che si occupano di svegliare le conoscenze che noi abbiamo innate anche se dimenticate.
17) “Quando però mi si dice:‘Tre tipi di problemi vi sono: dell’esistenza, dell’essenza e della qualità di una cosa’, io afferro, sì, l’immagine dei suoni che queste parole compongono, so che passarono per l’aria risuonando e ora non esistono più; ma le cose in sé, che quei suoni indicano, non le toccai con nessuno dei sensi corporei, né le vidi fuori dallo spirito. (...) Da dove, dunque, e per dove entrarono queste cose nella mia memoria? Non lo so. Le appresi non già affidandomi a un’intelligenza altrui, ma nella mia riconoscendole e apprezzandone la verità, per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque là erano anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria. Dove dunque, o perché al sentirne parlare le riconobbi e dissi: ”È così, è vero”? Erano forse già nella memoria, però tanto remote e relegate, per così dire, in cavità più segrete, di modo che forse non avrei potuto pensarle senza l’insegnamento di qualcuno, che le estraesse?’[17]
18) “La memoria contiene anche i rapporti e le innumerevoli leggi dell’aritmetica e della geometria, senza che nessun senso corporeo ve ne abbia impressa alcuna, poiché non sono dotate di colore né di voce né di odore, né si gustano o si palpano.”[18]
La memoria è come un ventre dello spirito. In essa si depositano i ricordi. Essi possono essere anche dei sentimenti. Ma non si deve confondere il ricordo di un sentimento con il sentimento stesso. Essendo nel ventre, il cibo non ha più sapore. Quindi se ci si ricorda dei momenti felici, non per questo ricordare ci si rende felici.
19) “Anche i sentimenti dei mio spirito contiene la stessa memoria, non nella forma in cui li possiede lo spirito all’atto di provarli, ma molto diversa, adeguata alla facoltà della memoria. (...)In realtà la memoria è, direi, il ventre dello spirito, mentre letizia e tristezza sono il cibo, ora dolce ora amaro. Quando i due sentimenti vengono affidati alla memoria, passano in questa specie di ventre e vi si possono depositare, ma non possono avere sapore. È ridicolo attribuire una somiglianza a due atti tanto diversi; eppure non c’è una dissomiglianza assoluta.”[19]
Successivamente, Agostino si propone di trascendere la memoria. Il nodo dell’argomento è qui: lui sta cercando qualcosa e vuole trovarla, ma non può trovare qualcosa che non può identificare come quello que cerca di trovare, e per identificarla bisogna averla conosciuta prima.
20) “Supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, la supererò, per protendermi verso di te, dolce lume. Che mi dici? Ecco, io, elevandomi per mezzo del mio spirito sino a te fisso sopra di me, supererò anche questa mia facoltà, cui si dà il nome di memoria, nell’anelito di coglierti da dove si può coglierti, e di aderire a te da dove si può aderire a te. Hanno infatti la memoria anche le bestie e gli uccelli, altrimenti non ritroverebbero i loro covi e i loro nidi e le molte altre cose ad essi abituali, poiché senza memoria non potrebbero neppure acquistare un’abitudine. Supererò, dunque, anche la memoria per cogliere Colui, che mi distinse dai quadrupedi e mi fece più sapiente dei volatili del cielo. Supererò anche la memoria, ma per trovarti dove, o vero bene, o sicura dolcezza, per trovarti dove? Trovarti fuori della mia memoria, significa averti scordato. Ma neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te.”[20]
Il filosofo ci dà un esempio per farci capire che un oggetto che si cerca, si cerca perché si è perduto. Quando si cerca, si ha un ricordo di esso, una immagine interiore. L’oggetto viene trovato quando si identifica con il suo ricordo.
21) “La donna che perse la dracma e la cercò con la lucerna, non l’avrebbe trovata, se non ne avesse avuto il ricordo. Trovandola, come avrebbe saputo che era la sua dracma, se non ne avesse avuto il ricordo? Molti oggetti ricordo di aver perso anch’io, cercato e trovato; e so pure che, mentre ne cercavo qualcuno, se mi si chiedeva: ‘È forse questo?’, ‘È forse quello?’, continuavo a rispondere di no, finché mi veniva presentato quello che cercavo. Se non avessi avuto il ricordo di quale era, quand’anche mi fosse stato presentato, non l’avrei ritrovato, poiché non l’avrei riconosciuto. Avviene sempre così, ogni volta che perdiamo e cerchiamo e troviamo qualcosa. Se mai qualcosa, ad esempio un qualsiasi oggetto visibile, scompare dai nostri occhi, ma non dalla nostra memoria, la sua immagine si conserva dentro di noi, e noi cerchiamo finché sia restituito alla nostra vista. Trovatolo, lo riconosciamo in base all’immagine interiore, né diremmo di aver trovato l’oggetto scomparso, se non lo riconoscessimo, né potremmo riconoscerlo, se non lo ricordassimo. L’oggetto era perduto, sì, per gli occhi, ma conservato dalla memoria.”[21]
Si continua a cercare Dio perché non è dimenticato del tutto.
22) “Infatti una cosa, di cui ricordiamo almeno di averla dimenticata, non è ancora dimenticata del tutto. Dimenticata del tutto, non potremmo dunque neppure cercare una cosa perduta.”[22]
Agostino identifica Dio alla felicità. Infatti, afferma che tutti vogliono diventare felici. Che cos’è la felicità? Il filosofo dà una risposta a questo quesito in un’altra opera, I Costumi della Chiesa e i Costumi dei Manichei I, III, 4-5: la felicitá è prodotta dall’amore e dal sommo bene dell’uomo. Che cosa fa sommo questo bene? La sua caratteristica è non poter esser perduto contro volontà. Insomma, si è felici quando si possiede quello che si desidera; quello che si desidera non può essere un male, allora deve essere il Sommo Bene. (Cfr. La Vita Beata II, 10)
23) “Come ti cerco dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l’anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te. Come cerco dunque la felicità? Non la posseggo infatti, finché non dico: ‘Basta, è lì’. E qui bisogna che dica come la cerco: se mediante il ricordo, quasi l’abbia dimenticata ma ancora conservi il ricordo di averla dimenticata, oppure mediante l’anelito di conoscere una felicità ignota perché mai conosciuta o perché dimenticata al punto di non ricordare neppure d’averla dimenticata. La felicità della vita non è proprio ciò che tutti vogliono e nessuno senza eccezioni non vuole? Dove la conobbero per volerla così? dove la videro per amarla? Certo noi la possediamo in qualche modo. C’è il modo di chi la possiede, e allora è felice, e c’è chi è felice per la speranza di possederla. I secondi la posseggono in modo inferiore ai primi, felici già per la padronanza della felicità; tuttavia stanno meglio di altri non felici né per padronanza né per speranza. Però nemmeno questi ultimi desidererebbero tanto la felicità, se non la possedessero in qualche modo; che la desiderino, è certissimo. Non so come, la conobbero, e perciò, perché la conoscono, la posseggono, in una forma a me sconosciuta, che mi travaglio di conoscere. È forse nella memoria? Se lì, ci fu già un tempo, in cui fummo felici; se ciascuno individualmente, o nella persona del primo peccatore in cui tutti siamo morti e da cui tutti siamo nati infelici, non cerco ora di sapere. Ora cerco di sapere se la felicità si trova nella memoria. Certo, se non la conoscessimo, non l’ameremmo. All’udirne il nome tutti confessiamo di desiderarla in se stessa, e non è il suono della parola che ci rallegra. Non si rallegra un greco quando l’ode pronunciare in latino, poiché non comprende ciò che viene detto, mentre noi ci rallegriamo, come si rallegra lo stesso greco all’udirlo in greco, poiché la cosa in se stessa non è greca né latina, ed è la cosa, che greci e latini e popoli di ogni altra lingua cercano avidamente. L’umanità intera la conosce. Se si potesse chiederle con una sola parola se vuol essere felice, non v’è dubbio che risponderebbe di sì. Il che non accadrebbe, se appunto la cosa che la parola designa non si conservasse nella memoria.”[23]
Il ricordo della felicità non è come quello delle cose sensibili, dato che la felicità non si vede. Inoltre, sappiamo che le cose sensibili possono essere perdute contro la nostra volontà: si possono rompere, qualcuno ce le può sottrarre, o il tempo, prima o poi, ce le porterà via.
Il ricordo della felicità non è nemmeno come quello delle cose astratte come i numeri. Esso è un ricordo che ci spinge ad amare e a cercare l’oggetto corrispondente.
24) “È un ricordo simile a quello che ha di Cartagine chi vide questa città? No, perché la felicità, non essendo corporea, non si vede con gli occhi. È simile al ricordo che abbiamo dei numeri? Nemmeno, perché chi ha la nozione dei numeri non cerca ancora di possederli, mentre la nozione che abbiamo della felicità ce la fa anche amare, e tuttavia cerchiamo ancora di possederla per essere felici.”[24]
Il desiderio della felicità è anche desiderio della verità. Infatti, a nessuno piacerebbe avere una falsa felicità e così essere ingannato.
25) “Chiedo a tutti:‘Preferite godere della verità o della menzogna?’. Rispondono di preferire la verità, con la stessa risolutezza con cui affermano di voler essere felici. Già, la felicità della vita è il godimento della verità, cioè il godimento di te, che sei la verità, e Dio, mia luce, salvezza del mio volto, Dio mio. Questa felicità della vita vogliono tutti, questa vita che è l’unica felicità vogliono tutti, il godimento della verità vogliono tutti. Ho conosciuto molte persone desiderose di ingannare; nessuna di essere ingannata. Dove avevano avuto nozione della felicità, se non dove l’avevano anche avuta della verità? Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannate; e amando la felicità, che non è se non il godimento della verità, amano certamente ancora la verità, né l’amerebbero senza averne una certa nozione nella memoria. Perché dunque non ne traggono godimento? Perché non sono felici? Perché sono più intensamente occupati in altre cose, che li rendono più infelici di quanto non li renda felici questa, di cui hanno un così tenue ricordo. C’è ancora un po’ di luce fra gli uomini.”[25]
L’essere umano può essere felice o non esserlo, dipende dalla sua volontà. Se ama ciò che deve amare, cioè, la Verità / il Sommo Bene, e non il contrario, sarà ricompensato. È stato il primo peccatore che fece uso della sua facoltà di scelta e chi fu condannato a non poter identificare l’oggetto del suo amore, a distendersi e a percorrere un arduo itinerario. Noi abbiamo ereditato la condanna, ma saremo noi, afferma il filosofo, a risarcire il peccato di superbia con l’umiltà di riconoscere che non siamo integri, che ce n’è un altro che sì lo è, al quale Agostino d’Ippona si confessa dimostrando quanto sia umano.
26) “E ti sei degnato di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti conobbi! Perché cercare in quale luogo vi abiti? Come se colà vi fossero luoghi. Vi abiti certamente, poiché io ti ricordo dal giorno in cui ti conobbi, e ti trovo nella memoria ogni volta che mi ricordo di te. (...) Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v’è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v’è spazio dovunque.”[26]
27) “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fraganza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.”[27]
27/09/2008
Autore: Cristian Emiliano Valenzuela Issac
Mail: gepetto88@yahoo.com.ar
Bibliografia:
i. AGOSTINO D’IPPONA, Confessioni, trad. all’italiano, in http://www.monasterovirtuale.it
ii. AGUSTÌN DE HIPONA, Confesiones, intr., trad. y notas de Silvia Magnavacca, Losada, Bs. As., 2005
iii. AGUSTÌN DE HIPONA, De la vida feliz, trad. Victorino Capanaga, B. A. C., Madrid, 1969
iv. AGUSTÌN DE HIPONA, De las costumbres de la Iglesia Católica y de las costumbres de los maniqueos, trad. Teófilo Prieto, B. A. C., Madrid, 1948
v. AGUSTÌN DE HIPONA, Soliloquios, trad. Victorino Capanaga, B. A. C., Madrid, 1969
vi. Armstrong, A. H., Introducción a la filosofìa antigua, trad. Carlos A. Fayard, Bs. As., Eudeba, 1966
vii. PEGUEROLES, J., “La filosofìa cristiana, segùn San Agustìn” en Espìritu, 1969, Vol. XVIII, 105-120.
[1] Agostino, Confessioni III, I, 1.
[2] Agostino, La Vita Beata I, 4.
[3] Agostino, Soliloqui I, 2, 7.
[4] Agostino, Confessioni VIII, X , 22.
[5] Agostino, Confessioni VI, IV, 6.
[6] Agostino, Confessioni VIII, V, 10.
[7] Agostino, Confessioni VIII, VII, 17.
[8] Agostino, Confessioni VIII, XI, 27 e Ibid. VIII, XII, 28.
[9] Agostino, Confessioni VIII, XII, 29.
[10] Agostino, Confessioni X, VI, 8.
[11] Agostino, Confessioni X, VI, 8.
[12] Agostino, Confessioni X, VI, 9.
[13] Agostino, Confessioni X, VI, 9.
[14] Agostino, Confessioni X, VI, 10.
[15] Agostino, Confessioni X, VIII, 12.
[16] Agostino, Confessioni X, VIII, 14.
* Agostino, Confessioni X, VIII, 15. Cfr. Petraca, Familiari IV, 1
[17] Agostino, Confessioni X, X, 17.
[18] Agostino, Confessioni X, XII, 19.
[19] Agostino, Confessioni X, XIV, 21.
[20] Agostino, Confessioni X, XVII, 26.
[21] Agostino, Confessioni X, XVIII, 27
[22] Agostino, Confessioni X, XVIII, 28
[23] Agostino, Confessioni X, XX, 29.
[24] Agostino, Confessioni X, XXI, 30.
[25] Agostino, Confessioni X, XXIII, 33.
[26] Agostino, Confessioni X, XXV, 36 e Agostino, Confessioni X, XXVI, 37.
[27] Agostino, Confessioni X, XXVII, 38.